PADRE MATTEO RICCI E LE ARTI MARZIALI

Abbiamo voluto dedicare questo articolo al Padre gesuita Matteo Ricci, il quale nel 1600 decise di avventurarsi nella difficile missione di evangelizzazione della Cina. Alcuni aspetti del suo approccio mentale e spirituale legati alla  sua ambiziosa missione, sono davvero interessanti soprattutto  per noi praticanti di arti marziali.

La strategia di Padre Matteo Ricci fu esattamente quella di comunicare ai cinesi le Virtu’ Confuciane attraverso le parole di un altro Maestro (Gesù), venuto al mondo 551 anni dopo Confucio. Questo fu un aspetto davvero importante e che creò moltissima empatia con i cinesi.

Oltre a ciò, Matteo Ricci portò con se’ una mappa geografica del mondo, in cui la posizione della Cina  era centrale e dominante. Attorno alla Cina disegno gli altri paesi. In questo modo, comunicò ai cinesi la presenza di altri popoli, di altre culture e religioni a loro sconosciute.

Per i praticanti di arti marziali classiche è molto importante aver compreso il valore dello scambio culturale, perchè  attraverso il desiderio di conoscenza  si progredisce nella crescita interiore. Praticare le arti marziali, per noi occidentali, significa interessarsi a nuove culture e tradizioni. In questo modo potremo intuire i punti in comune e le differenze, traendone un’esperienza di crescita costruttiva e consapevole.

 

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L’esperienza storica di Matteo Ricci

Nello scambio interculturale tra Occidente ed Oriente di cui Matteo Ricci si è fatto portavoce, sei sono i temi fondamentali della sua esperienza storica: la responsabilità, cura o carità verso tutti i popoli del mondo; la diffidenza e la paura nei confronti dello straniero; la presenza quotidiana della morte come compagna di viaggio; il sogno di essere accolto stabilmente e di poter comunicare con libertà il cristianesimo alla nazione cinese; il patrimonio di conoscenze universali trasmesso alla Cina; il vincolo particolare di amicizia stretto con i letterati confuciani e con il popolo cinese.
Carità
La carità costituisce il carattere fondamentale che rese possibile l’esperienza straordinaria dell’incontro tra civiltà europea e civiltà cinese attraverso l’opera congiunta di Matteo Ricci e dei suoi compagni, da una parte, e di un numero cospicuo di letterati confuciani dall’altra. Questi intellettuali si incontrarono, si riconobbero e collaborarono congiuntamente nella condivisione dell’ideale della carità, intesa come suprema espressione della virtù cristiana e di quella confuciana. Per “carità” quegli uomini intendevano l’esercizio della responsabilità o della cura verso se stessi e verso gli altri in ossequio a un principio universale, fosse questo il Dio giudaico-cristiano, il Cielo dei confuciani o il bene comune di Aristotele. In effetti, Ricci poté assimilare e sintetizzare, nella propria visione del mondo e nella propria esperienza, sia l’insegnamento degli antichi classici occidentali, sia il precetto della carità universale verso tutte le nazioni espresso da Ignazio di Loyola, sia il magistero dei classici confuciani, che egli per primo tradusse in latino e raccolse in parafrasi. Nell’anelito alla costruzione di una sola famiglia umana, al di là delle differenze di razza, lingua, religione, letterati occidentali e cinesi realizzarono l’inedita e irripetibile “impresa della Cina”.
Paura dello straniero
La più grave difficoltà che Ricci dovette affrontare fu la diffidenza e la paura ancestrale dei cinesi nei confronti degli stranieri. Ricci esamina a lungo nella Entrata e nelle Lettere le ragioni di questa diffidenza, dovute sia allo scarso amore dei cinesi per le armi, sia alle esperienze di invasioni ripetutamente subite dai popoli vicini, principalmente dal Giappone. Questa diffidenza, accompagnata alla convinzione di costituire l’unico popolo civile del mondo, aveva indotto la Cina a sviluppare un formidabile dispositivo di sicurezza e di autoisolamento, che aveva reso vano, nei trent’anni precedenti l’arrivo di Ricci a Macao (1582), ogni tentativo compiuto sia dai mercanti portoghesi sia dai missionari occidentali, di avere accesso al Regno del drago. Animato dallo spirito di Ignazio, che aveva prescritto ai suoi compagni di farsi turchi con i turchi, arabi con gli arabi, indiani con gli indiani, e obbedendo alle direttive del Valignano, Ricci si fece cinese con i cinesi. Grazie al suo sapere e alla sua virtù, aprì una porta nel muro della paura e della diffidenza. Negli anni di Pechino, egli sottolineava che in tutta la storia della Cina mai era accaduto che degli stranieri fossero accolti in essa come era accaduto a lui stesso e ai suoi compagni, che potevano vivervi conservando intatta la propria identità, nel rispetto e nell’ammirazione di tutti.
Morte
Il confronto quotidiano con la morte, e la stessa aspirazione al martirio furono componenti essenziali dell’esperienza umana e spirituale di Ricci, dalla sua partenza da Lisbona il 24 marzo 1578 all’11 maggio 1610. Chi saliva su un galeone per l’India sapeva che aveva una possibilità su due di arrivare a destinazione, per le insidie del mare, per gli assalti dei pirati, per le frequenti epidemie che scoppiavano a bordo. Giunto in India, Ricci subì un lungo assalto della malaria; altro attacco di malattia, tale da fargli credere di poterne morire, subì nel viaggio da Goa a Macao; tra Zhaoqing e Shaozhou affrontò tre processi; a Shaozhou perse uno dopo l’altro, per la malaria, due confratelli; tentando di risalire verso Pechino, la sua barca fece naufragio sul fiume Gan e lì morì un giovane assistente cinese. Giunto fortunosamente a Nanchino nel 1595, fu cacciato indietro con grande violenza, rischiando l’espulsione. E ancora quotidiani pericoli sui fiumi, sospetti, denunce, malattie, di nuovo arresti, da parte dell’eunuco Ma Tang e poi, presentati i doni all’imperatore, da parte del Ministero dei riti nel “Castello dei barbari”. Un giorno ebbe a scrivere: “sempre stiamo con la morte avanti gli occhi”. Ma non per lamentarsi o drammatizzare; al contrario, con la segreta speranza che essa potesse essere il suggello dell’intera sua vita.

Sogno
Un famoso sogno avuto verso la fine di giugno del 1595 e narrato da Ricci due volte nelle sue opere, costituisce il punto di svolta simbolico e affettivo tra la prima fase del suo soggiorno in Cina, contrassegnata dallo status esteriore di bonzo buddista, e la seconda fase, nella quale Ricci assume lo status del letterato predicatore e si assimila sempre più al ceto dei letterati confuciani. Il sogno accade sulla barca che lo riporta verso Nanchang, dove fonderà la terza residenza, nel momento forse più drammatico e sconfortante della sua esperienza di Cina. Sogna un uomo sconosciuto che gli si fa incontro e mette a nudo la sua segreta intenzione di voler sostituire con il cristianesimo l’antica religione della Cina. Rivelatosi come Dio stesso, al pianto dirotto di Ricci che gli chiede perché non lo aiuti, egli risponde: “Ti aiuterò nella corte”, ossia a Pechino. Questo sogno, che a Ricci parve “più che sogno”, presenta diversi elementi di interesse. Ci si può limitare a considerare questo soltanto: l’autore attribuisce a Dio le stesse parole rivolte al fondatore della Compagnia nella celebre visione della Storta (“Ti aiuterò a Roma”), ponendo la fondazione della missione di Cina sullo stesso piano della fondazione della Compagnia di Gesù.
Conoscenza
Gli strumenti fondamentali di cui Ricci si servì per superare la diffidenza cinese nei confronti degli stranieri e realizzare l’impresa della Cina furono due: il patrimonio di saperi che aveva acquisito negli anni della sua formazione tra Macerata e Roma, e il sincero sentimento di amicizia che lo legò al popolo cinese. La sua ottima formazione letteraria, filosofica e scientifica gli consentì di accogliere e superare la sfida di una civiltà convinta di essere la sola depositaria del sapere e di non aver nulla da imparare da nessuno straniero. Grazie alle carte geografiche universali, alla traduzione della Geometria di Euclide, alle opere di filosofia morale ispirate agli antichi stoici greci e latini, Ricci costituì la maggiore contraddizione offerta alla cultura cinese, quella di un barbaro capace di insegnare alla Cina. E fu chiamato comunemente Xitai, ossia “il maestro occidentale”.

Amicizia
Quando comprese che “in Cina si fa più con libri che con parole”, Ricci si mise a scuola di composizione letteraria cinese e nel 1595, a Nanchang, compose “per esercitio” la sua prima opera, dedicandola al tema dell’amicizia. Egli conosceva l’importanza attribuita dalla cultura cinese a questo sentimento, considerato relazione sociale naturale tra tutti gli uomini e fondamento delle altre quattro relazioni sociali naturali: tra padre e figlio, marito e moglie, fratello maggiore e fratello minore, sovrano e suddito. Ricci scelse cento sentenze di classici occidentali greci e latini e mostrò ai lettori cinesi che su questo tema essi avevano “sentito” esattamente come gli antichi maestri confuciani. I letterati che scrissero prefazioni per l’opera osservarono che il dotto Lì Mǎdòu aveva dimostrato che il lontano Occidente e la Cina, due civiltà che non si conoscevano fino a dodici anni prima, non erano altro che le due metà di un intero, ossia di un’unica convergente civiltà umana. Da ciò emerge con evidenza che l’amicizia, di cui si tratta nei testi di Ricci e dei suoi collaboratori cinesi, non ha soltanto la valenza di un sentimento privato interpersonale, ma anche e specialmente quella di un fondamentale vincolo politico, che nasce dalla carità e mira, con la carità, a costruire un’unica umana famiglia.